In questo periodo c’è una canzone che passano
spesso le radio e che sta avendo grande successo: “Watermelon Sugar” di Harry
Styles.
Come si può intuire dal titolo, il
brano è un inno alla dolcezza dell’anguria ... “sono in estasi di zucchero
d'anguria ...”
Bene, questa canzone mi ha riportato
alla memoria una delle famose scampagnate degli anni ’70.
Credo fosse il 1973, forse un
ferragosto, quando i miei, mio padre per la precisione, decise di organizzare
la famigerata scampagnata estiva.
Di solito lo faceva in concomitanza
con altri suoi amici, con a seguito, chiaramente, le loro famiglie.
E così ci si ritrovava tuti lì, in
montagna, o al lago, o nelle vicinanze di qualche fiume.
Quella volta ci ritrovammo tutti a
“Prato Gentile”, località Capracotta. Montagna nel cuore dell’appennino
molisano.
Si partiva la mattina molto presto,
soprattutto perché se si arrivava tardi si correva il rischio di non trovare un
bel posto al fresco, sotto un bellissimo albero.
Si caricava la macchina come si se
partisse per un mese di vacanza e non per una sola giornata.
C’era di tutto: tavolo e sedie
pieghevoli, plaid, pallone Super Santos (quello arancione), cesti di vimini e
cassette di legno ricolme di tutto il ben di Dio che la mente umana potesse
concepire, ma, soprattutto, lui, il Re della giornata, il “Watermelon”, Sua
Maestà l’Anguria!”.
Era la prima cosa da mettere al fresco
appena arrivati insieme alle bibite varie e alla bottiglia di vino.
Si cucinava per un esercito.
Chiesi a mia madre il perché di quella
esagerazione, mi rispose che il cibo andava “condiviso”. Insomma si cucinava
anche per gli altri in modo che ci si potesse scambiare quello che si era
cucinato. L’attività principale della giornata in pratica era quella di
abbuffarsi.
Assaggia la mia frittata di maccheroni
che io assaggio la tua parmigiana! ... e così via!
Uno spettacolo!
E così ci si ritrovò tutti lì quel
ferragosto del 1973. Conoscevamo quasi tutti.
I miei erano felici.
Uno dei rari moneti di felicità
assoluta che ti rimangono impressi nella mente per tutta la vita.
Vedere i miei genitori felici, per me,
era una cosa così gratificante, così emozionante. Mi faceva
stare bene dentro. Una sensazione
difficile da descrivere.
Bella perché rara!
Già quello mi bastava. Avrei potuto
già archiviare quel ricordo, di quel ferragosto, come una bellissima giornata
da ricordare per sempre ma, ad arricchire i ricordi di quel giorno, tra un
arrosto e una cotoletta, tra un bicchiere di vino e l’altro, ci fu Mario.
Mario era il proprietario di un noto
bar isernino di via Risorgimento.
Con la sua famiglia erano lì che
arrostivano, mangiavano, bevevano, cantavano.
Di quelle scampagnate ricordo i suoni
oltre che i profumi e il caldo. Il vociare, il chiacchiericcio continuo, le
canzoni estemporanee, l’allegria contagiosa.
Ad un certo punto però Mario, che
aveva bevuto qualche bicchiere di troppo, decise di “scalare” un albero
altissimo.
In preda ai fumi dell’alcol iniziò ad
arrampicarsi come una scimmia. Ci fu un attimo di panico.
Per un attimo il vociare diffuso
diminuì, solo il frinire delle cicale rimase inalterato.
Inutile provare a farlo desistere, più
lo chiamavano a gran voce e più si arrampicava in alto.
Era chiaro che in quelle condizioni
avrebbe potuto precipitare e farsi male, molto male.
Così fu.
All’improvviso un ramo cedette e Mario
precipitò.
A quel puntò si levò al cielo un
grande urlo, non di Mario, ma di tuti i presenti che all’unisono strillarono
per lo spavento.
La sua fortuna fu che la caduta venne
attutita dagli altri rami e che, probabilmente, l’alcol assunto agì da
anestetico.
Non ricordo se fu chiamata
un’ambulanza, non ricordo quanto si fece male.
Quello che ricordo però è che dopo
pochi giorni, passando in Corso Risorgimento, lo vidi.
Era lì, come al solito, nel suo Bar, un
po’ acciaccato ma tranquillo e beato, con la sua bella birra in mano.
L’albero aveva avuto la peggio con i
suoi rami spezzati, Mario aveva vinto, era sopravvissuto al ferragosto del ’73.
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